venerdì 23 dicembre 2016

"Violenza assistita" e "orfani speciali"

Una delle conseguenze più nefaste legate ai casi di violenza domestica ai danni delle donne e a quelli più estremi di femminicidio è rappresentata dall'insieme di effetti a breve e a lungo termine sofferti dai figli della coppia maltrattante-maltrattata. Abbiamo già visto in precedenti post quali fattori possano spingere un uomo a maltrattare la propria compagna, così come abbiamo potuto considerare per quali motivi una donna vittima di violenza non riesca ad allontanarsi dal suo aguzzino. Ciò che non avevamo ancora approfondito sono, appunto, i danni psicologici riportati da quei minori che per anni, impotenti, assistono alle violenze a cui la madre è sottoposta. Sono quei minori che, una volta che il padre sia arrivato a uccidere la compagna e che, fortunatamente, non abbia deciso di eliminare anche gli stessi figli, sono chiamati "orfani speciali". A questo tema si è oggi dedicata la trasmissione Forum, in onda su Canale Cinque, che mi sono trovato casualmente a seguire e che mi ha spinto a spendere opportunamente due parole sull'argomento.

Abbiamo già detto che, in un numero considerevole di casi, le madri vittime di violenza non si allontanano dal compagno violento perché, non essendo economicamente indipendenti, temono, innanzitutto, di non poter assicurare ai propri figli quelle possibilità che, ritengono, sarebbero garantite solo grazie alle risorse del partner. La donna maltrattata, dunque, in un estremo gesto d'amore, si sacrifica per quello che la stessa crede possa essere il bene del resto della famiglia. Purtroppo, queste donne non riescono a comprendere che la c.d. "violenza assistita" ha su quegli stessi figli che vorrebbero proteggere conseguenze molto serie. In primo luogo, infatti, non è difficile immaginare quale possa essere la tensione a cui dei bambini siano soggetti nel vedere la propria madre frequentemente insultata, picchiata e, talvolta, persino violentata. Sono vari i disturbi psichici che possono insorgere in conseguenza di questa drammatica situazione, considerato che l'ambiente domestico, che dovrebbe essere luogo di sicurezza e affetto, diviene, invece, teatro di scene di violenza di diverso genere e grado. L'effetto più deleterio, tuttavia, è quello che si manifesta nel lungo termine: può accadere, infatti, che nel minore che abbia assistito alle violenze in esame maturi nel tempo una concezione distorta del rapporto che dovrebbe esistere tra i componenti di una coppia; in questa immagine distorta la violenza viene gradualmente concepita come parte integrante di una relazione. Più tenera è l'età del bambino, maggiore è la probabilità che in futuro questi possa adottare una condotta simile a quella tenuta a suo tempo dal padre maltrattante. Soprattutto nel caso in cui il minore, una volta adulto, instauri una relazione con una donna che a sua volta abbia subito abusi in età infantile e che tenda a legarsi a un certo tipo di individui maltrattanti, è molto probabile che tra i due si riproponga uno schema comportamentale coincidente con quello a cui il violento, da bambino, ha avuto la sfortuna di assistere per molto tempo e che, di fatto, egli è arrivato a considerare come normale e legittimo.

In seguito alla tragedia, i minori che siano sopravvissuti alla stessa si ritrovano a essere orfani, interessati da un trauma enorme e molto difficile da gestire qualora non si intervenga in modo tempestivo, avviando un adeguato percorso terapeutico che possa prevenire effetti come quelli sopra richiamati. Purtroppo, nella realtà questo non sempre avviene e molti bambini, senza l'assistenza di personale qualificato, crescono lacerati da una tremenda ferita che molto difficilmente riesce a guarire.
    

venerdì 25 novembre 2016

Stalkers

Sono stati resi noti i più recenti dati Istat relativi agli atti persecutori che nel nostro Paese sono posti in essere nei confronti delle donne. Sarebbero 3,5 milioni le donne ad aver subito episodi di stalking nel corso della loro vita e il 78% di loro non ha mai chiesto aiuto. Cerchiamo allora di considerare in sintesi gli aspetti principali di questo fenomeno.

I persecutori sono individui che possono essere considerati veri e propri "cacciatori". Vi basti pensare, infatti, che il termine stalking è traducibile in italiano con l'espressione "caccia in appostamento"; deriva, infatti, dal verbo inglese to stalk, che significa propriamente "inseguire la preda in modo furtivo".
Uno stalker è un persecutore assillante che, con particolari comportamenti ripetuti nel tempo, crea nella sua vittima un profondo stato di disagio, fisico e psicologico. La persona perseguitata si sente di fatto come una preda braccata. Il persecutore, in genere, non aggredisce in modo diretto ricorrendo alla violenza fisica, ma esercita il suo potere sulla vittima attraverso tutta una serie di comportamenti da cui la stessa può sentirsi minacciata o comunque molestata. Non sempre lo stalker è pienamente consapevole di generare nel soggetto perseguitato uno stato di grave disagio, potendo in certi casi essere affetto da disturbi mentali che determinano l'incapacità di riconoscere la gravità della propria condotta.

Parlando di stalking, sono solito fare riferimento alla classificazione proposta da Paul Mullen, professore di psichiatria forense, che identifica in particolare cinque categorie di persecutori: "cercatori di intimità"; "respinti"; "corteggiatori incompetenti"; "rancorosi"; "predatori".
Il "cercatore di intimità" è un soggetto che cerca in ogni modo di instaurare un rapporto con una persona da cui si sente attratto, nell'incrollabile convinzione che questa sia innamorata di lui. La vittima generalmente non conosce il persecutore, nel quale può essersi imbattuta nell'ambito delle personali attività quotidiane. È un tipo di stalker particolarmente insistente. Solitario e non abile nel corteggiamento,  può spesso essere affetto da disturbo di personalità o da disturbo psicotico con marcata presenza di delirio erotomanico.
Il "respinto" è un persecutore che, avendo avuto in passato una relazione sentimentale con la vittima, è spinto dal desiderio incontrollabile di riallacciare il rapporto con la stessa. Solitamente, è un individuo violento da cui la donna perseguitata ha voluto ed è riuscita ad allontanarsi. Presenta molto spesso anomalie caratteriali e problemi di abuso di alcool e/o di stupefacenti.
Il "corteggiatore incompetente" è un soggetto con marcata incapacità di instaurare un rapporto sentimentale con le altre persone. A differenza del cercatore di intimità, questo tipo di stalker ha avuto un effettivo approccio con la vittima, ma si rivela assolutamente incapace di corteggiarla in modo adeguato. Quesa incapacità può derivare da immaturità, mancanza di un certo tipo di educazione, ma anche da ritardo mentale o da altri gravi disturbi psichici. Non è un persecutore particolarmente insistente e tende a cambiare vittima quando abbia ricevuto da questa un netto rifiuto.
Il "rancoroso" è uno stalker che vede sè stesso come vittima di particolari torti o soprusi, che possono essere reali o solo presunti. La persecuzione si concentra su soggetti da cui il rancoroso si sia sentito in passato umiliato o tormentato. La vittima braccata può anche non essere la persona da cui il persecutore ritiene di aver subito il torto, ma avere solo la sfortuna di rappresentarla simbolicamente. Questo tipo di stalker presenta generalmente gravi disturbi mentali (es. disturbo psicotico con delirio di persecuzione).
Il "predatore", infine, è il tipo di persecutore più pericoloso. Sono stalkers violenti che cacciano la loro preda spinti da un perverso appetito sessuale. Non sono socialmente bene integrati e presentano seri problemi di autostima. Affetti quasi sempre da parafilie, pensano ossessivamente alla vittima come oggetto sessuale su cui scaricare i loro impulsi. L'aggressione fisica e sessuale non rappresenta un'eventualità, ma un'azione che questi soggetti pianificano con cura.

I criminologi ritengono che alla base del comportamento persecutorio vi sia una vera e propria "patologia dell'attaccamento", determinata da una storia infantile di abusi, maltrattamenti e importanti perdite affettive.

Per quanto concerne i comportamenti più frequentemente adottati dai persecutori, possiamo dire
che uno stalker può fare ricorso a un arsenale davvero molto ampio, fatto di incessanti contatti telefonici, pedinamenti e appostamenti, adulazioni e regali continui, molestie di vario genere, visite intrusive nel domicilio e sul posto di lavoro, minacce e vandalismi...Senza considerare appostamenti e pedinamenti, che rappresentano il repertorio base degli stalkers, si può affermare che ogni tipo di persecutore prediliga in particolare alcuni dei comportamenti appena considerati: per esempio, respinti e rancorosi ricorrono frequentemente a molestie, minacce e vandalismi; cercatori di intimità e corteggiatori inadeguati, invece, si distinguono in particolare per l'invio assillante di regali e incessanti contatti telefonici. Considerate, comunque, che non esistono rigidi schemi comportamentali.
Vere e proprie aggressioni fisiche rappresentano generalmente il culmine dell'attività persecutoria e sono attuate quando lo stalker raggiunge l'apice della rabbia e della frustrazione nutrite nei confronti della vittima.

Merita di essere ricordato il c.d. "cyberstalking", tecnica di persecuzione particolarmente invasiva che sfrutta il mezzo informatico per molestare e minacciare la vittima designata.

Come emerso dalle ultime ricerche, la maggior parte delle donne che siano vittime di atti persecutori non si rivolgono a esperti e a forze dell'ordine per ottenere aiuto. Questo comportamento può rivelarsi un errore molto grave, per non dire fatale. Se è vero, infatti, che gli stalkers non ricorrono direttamente alla violenza nel corso della persecuzione, ugualmente vero è che col passare del tempo, a seguito dei rifiuti e dei tentativi di allontanamento da parte della vittima, questa possibilità può farsi sempre più concreta, in risposta a un accumulo di frustrazione che per il persecutore diviene insostenibile.


lunedì 24 ottobre 2016

Omicidi-suicidi tra le mura domestiche

In pochi giorni si sono susseguiti nuovi casi di femminicidio, accomunati dalla particolare dinamica dell'omicidio-suicidio: il primo è avvenuto il 21 ottobre nella periferia di Torino, mentre il secondo ha avuto luogo il giorno successivo in provincia di Pisa, nel Volterrano.
In entrambi i casi, l'uomo ha ucciso la moglie e si è poi tolto la vita. Differenze sembrano comunque emergere in rapporto alle cause alla base dei delitti: a Torino la tragedia pare essere avvenuta innanzitutto per motivi economici, considerato che l'omicida, oppresso dai debiti, avrebbe lasciato un biglietto per spiegare in quali difficili condizioni si trovasse. Nel caso di Montecerboli, nel Volterrano, sembra invece che i coniugi fossero in fase di separazione e che i litigi, hanno riferito i vicini, fossero sempre più duri e frequenti.

I due episodi considerati ci permettono di esaminare una dinamica sicuramente non rara quando ci si trovi di fronte a delitti intrafamiliari: il suicidio del pater familias (colui che più spesso, statisticamente parlando, è autore del delitto che si consuma tra le mura domestiche) segue a breve distanza di tempo l'omicidio della compagna. Ci si domanda, dunque, quali meccanismi possano dare origine a tragedie di questo tipo, le quali, qualora comprendano anche la morte dei figli della coppia, sono classicamente definite dalla letteratura come "family mass murders".

Ho già sinteticamente esaminato in un precedente post le diverse dinamiche che possono determinare un femminicidio. Cerchiamo ora di capire come possa spiegarsi il suicidio del suo autore successivamente al delitto.
Possiamo dire che il suicidio post delictum rappresenta il gesto a cui frequentemente ricorre il soggetto che sia affetto da disturbo mentale, che generalmente può
consistere in una forte depressione o in una psicosi. Nel caso specifico di depressione, l'omicidio può essere commesso anche da uomini che non sono mai stati violenti con la propria compagna. Nel caso di Torino è possibile, per esempio, che vi sia stata una situazione di questo genere, essendo piuttosto probabile, almeno sulla base dei primi elementi raccolti dagli investigatori e se risultasse l'assenza di precedenti episodi di violenza, che sia stato proprio uno stato depressisvo determinato dalle difficoltà economiche dell'uomo a portare all'ideazione del delitto e del successivo suicidio.
Il fine che l'omicida si propone di raggiungere in questi casi è generalmente quello di liberare non solo sè stesso ma anche i propri familiari dalle sofferenze inflitte da un mondo avvertito come sempre più ostile. Dopo aver ucciso la compagna e, se presenti, anche gli altri famigliari, il suicidio consente di ricongiungersi alle vittime.
Considerando, invece, i casi di uomini che prima di uccidere si sono contraddistinti per comportamenti violenti,  in molti soggetti che divengono sempre più aggressivi nei confronti della loro compagna coesistono paradossalmente il bisogno di eleminare la stessa, verso cui si sviluppa molto spesso una vera e propria ossessione, e la consapevolezza dell'incapacità di vivere senza di questa. In seguito all'omicidio, l'omicida sente di avere eliminato una parte di sè senza la quale è convinto di non poter restare. Il caso di Montecerboli potrebbe ricondursi a una dinamica di questo  tipo. Il fatto che non siano stati coinvolti i figli, presenti al momento del fatto, può suggerire che la tragedia non sia avvenuta in dipendenza di uno stato depressivo, dal momento che questo, in un numero considerevole di casi, spinge l'omicida a uccidere tutti i componenti della famiglia.
Secondo i criminologi, l'omicidio-suicidio è di solito un gesto premeditato. L'omicida dedica quindi un certo lasso di tempo all'ideazione del delitto e il suicidio rappresenta una conclusione programmata già prima dell'uccisione della compagna. Torna quindi il concetto di "delitto passionale", frutto di graduale maturazione.

Possiamo dire, in conclusione, che l'omicidio-suicidio può avere principalmente due spiegazioni: in certi casi può essere espressione del desiderio di morte dell'omicida, che, sopraffatto dall'intento suicida, decide egoisticamente di "portare con sé" anche la compagna, convinto di poterle risparmiare future sofferenze; in altri casi, l'uomo uccide la donna per determinati motivi (primo tra tutti la gelosia) e si suicida per ricongiungersi alla persona amata e ormai perduta, senza la quale non vede alcun futuro.

Rappresenta un caso particolare il c.d. "omicidio per pietà", che ricorre quando la compagna, affetta per esempio da grave malattia, è uccisa per evitare ulteriori sofferenze legate alla difficile situazione; in questo caso il successivo suicidio dell'uomo ha carattere, per così dire, "altruistico": egli si sente in dovere di uccidere la compagna sofferente e nello stesso tempo decide di accompagnarla anche nella morte.

domenica 16 ottobre 2016

Criminal Profiling

Credo siano ben poche le persone che sentendo parlare di criminal profiling non pensino immediatamente a film e serie tv di grande successo, che negli ultimi decenni hanno dovuto la loro fortuna a sceneggiature incentrate proprio su questa particolare scienza. Basti pensare al cult "Il silenzio degli innocenti" o a serie come "Criminal Minds", giusto per citare una delle più note. Difficile sorprendersi di un tale successo, si tratta indubbiamente di una disciplina che esercita un notevole fascino. Colpisce anche il fatto che molti di coloro che si avvicinano per la prima volta alla criminologia, nell'ambito di un corso di laurea o semplicemente da apppassionati, credono che essa coincida sostanzialmente proprio con il criminal profiling. Effettivamente, oggi sono in tantissimi a pensare che la figura del criminologo corrisponda a quella del "profiler", così spesso vista sul grande e piccolo schermo.  Ma il criminal profiling rappresenta in realtà soltanto una piccola parte dell'universo-criminologia, potendosi collocare nell'ambito di una criminologia, potremmo dire, di carattere prettamente investigativo. In massima sintesi, cerchiamo allora di fare un po' di chiarezza per capire in che cosa consista precisamente questa disciplina e quali siano i suoi principi basilari.

Per criminal profiling si intende la disciplina che in base allo studio del modus operandi di un soggetto ignoto cerca di elaborarne un profilo criminale, non solo per aiutare a meglio orientare le indagini degli inquirenti, ma anche per proporre idonee strategie di interrogatorio nei confronti di eventuali sospettati che possano rispondere al detto profilo. Si può sostenere che la precisione e l'attendibilità di un profilo criminale sono in stretto rapporto col numero di delitti commessi dal soggetto: ricorrendo una situazione di serialità (la commissione di più crimini dello stesso tipo, ma non solo), è infatti meno arduo elaborare un profilo che tenga concretamente in considerazione gli elementi desumibili dalle diverse scene dei crimini. Possiamo dire che ogni delitto, soprattutto se dello stesso tipo di quello precedente, permette di scorgere un particolare lineamento della psiche del soggetto ignoto. Attenzione: non bisogna pensare che un profilo criminale possa essere elaborato solo in occasione di omicidi, potendo infatti essere delineato anche al ricorrere di delitti meno gravi, come molestie e aggressioni che non si concludano con la morte della vittima. Il modus operandi, cioè lo schema comportamentale adottato dall'autore del delitto e finalizzato alla consumazione di questo, viene studiato dai c.d. "profilers" esaminando vari elementi: condizioni in cui si presenta la scena del crimine; caratteristiche della vittima; armi utilizzate dal soggetto ignoto; se c'è stato omicidio, lo stato in cui è rinvenuto il cadavere (per esempio, si guarda alla presenza o meno di particolari mutilazioni che possano presentarsi come "firma" dell'assassino, o ancora si considera se questi abbia compiuto sul cadavere atti di natura sessuale).

Le origini del criminal profiling risalgono già alla fine dell'800, quando in Inghilterra alcuni studiosi cercarono di elaborare il profilo dell'assassino conosciuto come "Jack lo squartatore". Oggi, quando pensiamo alla figura del profiler (cioè di chi cerca appunto di delineare il profilo criminale di un soggetto ignoto che si vuole identificare) tendiamo a fare innanzitutto riferimento all'FBI. Ed effettivamente è negli Stati Uniti che nel 1972, per opera degli agenti speciali Howard Teten e Patrick Mullany, nasce la famosa Behavioural Science Unit, oggi denominata Behavioural Analysis Unit. Per intenderci, si tratta dell'unità specializzata nell'analisi di crimini particolarmente violenti alla quale si fa riferimento nel telefilm "Criminal Minds".

Non esiste un unico modello su cui si fonda il criminal profiling, in quanto diversi studiosi, nel corso degli anni, ne hanno proposti di varie tipologie, anche in rapporto al particolare genere di delitti che richiedono il contributo della disciplina in esame.
Uno dei più noti è senza dubbio quello degli americani Douglas e Ressler, che, in rapporto ai casi di omicidi seriali, in base al modus operandi del soggetto ignoto, propongono la distinzione tra serial killer organizzato e serial killer disorganizzato.
Per amore di precisione, diciamo innanzitutto che cosa si intenda propriamente per serial killer: secondo la definizione proposta dall'FBI e generalmente condivisa dalla comunità scientifica, un serial killer è un soggetto che uccide almeno 3 persone in eventi distinti e in luoghi diversi e con un c.d. "intervallo emotivo" tra i vari omicidi (per intenderci, è come se l'impulso omicida riaffiorasse con forza solo col passare di un particolare lasso di tempo, che non va considerato immutabile nel corso della "carriera" del predatore, bensì assolutamente variabile). Le vittime possono essere scelte in base a particolari criteri o tendenzialmente a caso.
Tornando al modello di Douglas e Ressler, questi studiosi ritengono che sia possibile procedere a una distinzione tra serial killers considerando innanzitutto il livello di organizzazione manifestato nel compimento degli omicidi. In particolare, il s.k. organizzato ha, per così dire, il pieno controllo della situazione: si preoccupa di non lasciare tracce che possano portare alla sua identificazione, pianifica con cura il delitto, personalizza la vittima (essa, cioè, pur essendo sconosciuta, è scelta non a caso e assume per l'assassino un preciso valore e significato), ama generalmente sfidare le forze dell'ordine impegnate nelle investigazioni. Il s.k.disorganizzato, invece, agisce d'impulso, incapace di ogni tipo di pianificazione; la scena del crimine riflette spesso il disordine mentale presente nell'assassino: l'arma del delitto è frequentemente rinvenuta, così come altre tracce che possono facilitare l'identificazione del soggetto e che lo stesso non ha avuto premura di eliminare. La vittima è generalmente già conosciuta dal killler, che tuttavia tende a "depersonalizzare" la sua preda: all'atto di uccidere, infatti, l'assassino scarica le proprie pulsioni sulla vittima, che nel drammatico momento perde identità, divenendo solamente un bersaglio su cui scatenare l'istinto omicida.
Altro modello molto noto e decisamente più elaborato è quello di Holmes e Holmes, che, in base al modus operandi e tenendo sempre in considerazione la differenza tra assassini organizzati e assassini disorganizzati, distinguono principalmente 4 categorie di killer seriali:
- i s.k. visionari, che uccidono sostanzialmente a causa della psicosi da cui sono affetti; c'è dunque una patologia mentale che provoca una frattura più o meno totale con la realtà e che spinge il soggetto a uccidere (per esempio, si pensi al caso di allucinazioni visive o uditive per le quali l'omicida è portato a credere che forze sovrannaturali esigano l'uccisione di altre persone)
- i s.k. missionari, che uccidono solamente un certo tipo di persone perché considerate meritevoli di morire per determinati motivi; pensiamo, per esempio, al caso di un soggetto che senta che la sua missione sia quella di eliminare senzatetto o prostitute, perché ritenuti non meritevoli di vivere all'interno della società
- i s.k. edonisti, che uccidono per puro piacere; attraverso l'omicidio questi soggetti ricercano e ottengono principalmente o piacere sessuale, assecondando le proprie estreme perversioni, o anche unicamente il "brivido" che essi collegano al togliere la vita ad altre persone
- i s.k. sadici, che commettono gli omicidi soprattutto per la sensazione di totale dominio che possono provare nei confronti della vittima, torturata a lungo prima di essere uccisa.
Considerando queste categorie, si può dire che solamente per le ultime due la massima importanza è riconosciuta all'atto in sé dell'omicidio, che diviene vero e proprio rituale. Vi è dunque generalmente massima pianificazione, e il modus operandi coincide essenzialmente con quello tipico di un s.k.organizzato. Per i visionari e i missionari, invece, l'omicidio non diviene rito, ma è solamente azione che consente di sfogare l'impulso omicida avvertito e difficile da sopprimere (per alcuni Autori, sopprimere questo impulso non è solo difficile, ma impossibile). Mentre i missionari possono essere sia organizzati che disorganizzati, i visionari sono tendenzialmente assassini disorganizzati.

I modelli proposti, come visto, si concentrano sui casi di omicidi seriali. Ma abbiamo detto che il criminal profiling apporta il suo importante contributo al ricorrere non solo di omicidi, ma anche di aggressioni e violenze di vario tipo, di carattere sessuale e non. Ricordiamo allora i modelli di Hazelwood (che propone diversi possibili profili di stupratori), di Mullen (che si concentra sui profili dei persecutori/stalkers), di Lanning (per i molestatori di bambini).
In ogni caso, il modus operandi del soggetto ignoto fornisce elementi importantissimi ai fini investigativi.
 










martedì 20 settembre 2016

Quando il gruppo diviene BRANCO

Ha avuto un più che comprensibile eco mediatico la notizia della ragazza che a Melito Porto di Salvo (Reggio Calabria) è stata sottoposta dall'età di tredici anni fino ai quindici alle violenze e agli abusi sessuali compiuti da un gruppo di otto giovani ventenni suoi compaesani. Ancora una volta si è tornati a parlare di "branco": il richiamo è tutto a una dimensione bestiale, nella quale gli istinti più primordiali sembrano dettare legge e guidare le azioni dei singoli, che nel gruppo paiono quasi perdere la propria individualità. Naturale, quindi, domandarsi come questo sia possibile, come si possa essere capaci di certe azioni senza che subentri il minimo freno inibitorio o senso di colpa.
Ci si chiede se in casi come questo, con protagonista il branco, si ha più spesso a che fare con un gruppo di soggetti già dediti a un certo tipo di comportamento che si siano ritrovati poi in un gruppo,  favoriti da un meccanismo di "rinforzo reciproco", oppure se sia proprio il gruppo costituito che scatena nel singolo istinti e condotte antisociali prima tenute relativamente sotto controllo?
Prendendo quindi spunto da questo episodio, può rivelarsi utile considerare che le dinamiche che si sviluppano all'interno di un gruppo dedito a particolari comportamenti antisociali (comprese violenze di vario genere) possono essere in linea di massima molto simili nei vari casi, indipendentemente dalla realtà a cui il gruppo stesso appartenga e in cui agisca.
Sarebbe dunque importante domandarsi quali fattori possano spiegare dinamiche di questo tipo: che cosa può spingere il gruppo ad azioni che le persone da cui è composto, prese singolarmente, difficilmente  arriverebbero  a compiere? Superato lo sdegno comprensibilmente generato dall'accaduto, dobbiamo cercare di capire, innanzitutto, che cosa può fare del gruppo un branco.

Per tentare di trovare una risposta, diciamo subito che la criminologia può avvalersi dell'importante contributo offerto dalla psicologia sociale, che studia i processi di socializzazione e di interazione sociale, ossia il modo in cui il singolo tende a rapportarsi con gli altri. Se accettiamo l'idea che l'individuo può formarsi solo grazie al confronto con altri soggetti e che dunque vi è preminenza della percezione dell'altro sullo sviluppo dell'autocoscienza (come dire, cioè, che l'individuo non è in grado di agire su se stesso senza l'interazione con un altro che reagisce alle sue azioni), allora ben possiamo capire come sia fondamentale una scienza che faccia proprio dell'interazione il suo principale oggetto di studio. In particolare, la psicologia sociale ha da tempo dimostrato fino a che punto l'individuo possa essere condizionato e plasmato dal gruppo, soprattutto se costituito da suoi pari. Il singolo, in un tale contesto, può arrivare con disarmante facilità a tradire i propri principi e valori (quindi sé stesso).
Per capire meglio ciò di cui stiamo parlando, vorrei qui richiamare alla vostra attenzione il celebre studio condotto dallo psicologo Philip Zimbardo.
Nel 1971 Zimbardo condusse quello che è tutt'oggi conosciuto come "l'esperimento della prigionia simulata", i cui risultati colpirono profondamente la comunità scientifica. Organizzato nel Dipartimento di psicologia dell'Università di Stanford, nel quale si cercò di riprodurre al meglio l'ambiente carcerario, lo studio si proponeva di esaminare le dinamiche che si sarebbero sviluppate in  tale particolare contesto. Zimbardo e i suoi collaboratori selezionarono 24 soggetti maschi (ragazzi assolutamente normali, sani e psicologicamente stabili) e li suddivisero in due gruppi: a 12 venne assegnato il ruolo di secondini, agli altri quello di guardie. I ruoli furono assegnati a sorteggio, senza quindi dare ai volontari una possibilità di scelta. A entrambi i gruppi furono consegnati indumenti adeguati alla parte che avrebbero dovuto recitare: le guardie avrebbero indossato un'uniforme e portato accessori quali manganello, occhiali a specchio e fischietto; ai detenuti, invece, vennero consegnati un camice di cotone e sandali di gomma.
Ai giovani con il ruolo di guardie vennero date poche, semplici indicazioni: il loro compito sarebbe stato quello di garantire l'ordine all'interno della prigione simulata. Avrebbero avuto "carta bianca", senza l'obbligo di attenersi a precisi modelli di comportamento. Unico limite: non avrebbero mai dovuto ricorrere a punizioni fisiche.
L'esperimento sarebbe dovuto durare due settimane, ma Zimbardo fu costretto a interrompere il tutto dopo appena 5 giorni: contravvenendo all'unica regola data, i secondini erano arrivati a porre in essere aggressioni fisiche e psichiche sempre più estreme, infierendo senza alcuna pietà sul gruppo di giovani col ruolo di prigionieri. Si ricordi che i giovani a cui era stato assegnato a sorteggio il ruolo di secondino erano ragazzi assolutamente equilibrati: in nessuno di loro, prima dell'esperimento, era stata identificata una particolare inclinazione a condotte antisociali.
Che cosa ha quindi favorito la trasformazione di questi giovani in soggetti sadici e senza pietà? Zimbardo non ebbe dubbi a riguardo: sicuramente il contesto particolare aveva giocato una parte importante, così come il fenomeno dell'immedesimazione in ruoli che implicano l'esercizio di un potere autoritario, ma la verità a cui si giunse è che il gruppo in sé favorisce un certo tipo di comportamenti. E questo sulla base di due elementi:
- Il gruppo, innanzitutto, porta al fenomeno della "deindividuazione", cioè alla perdita di autoconsapevolezza, e genera una sensazione di quasi anonimato, condizioni che rendono più facile assecondare impulsi antisociali che il singolo terrebbe sotto controllo. Il gruppo, si può affermare, spesso "slatentizza" l'aggressività dell'individuo.
- In secondo luogo, il "potere dell'approvazione sociale" è davvero notevole: il bisogno di piacere a tutti i costi agli altri è così forte da spingerci spesso a conformarci a comportamenti insensati. Ciò spiega perché il membro del gruppo che percepisca il disvalore della condotta collettiva non riesca così facilmente a opporsi agli altri componenti.

Quanto detto ci aiuta a capire che effettivamente il gruppo, al ricorrere di particolari fattori situazioniali, esercita sul singolo un potere tutt'altro che trascurabile, che ben può favorire la comparsa o quanto meno l'accentuarsi di un certo tipo di condotte.

Il caso specifico di Melito presenta ovviamente dei tratti peculiari, primo tra tutti quello che le molteplici violenze succedutesi nel coso degli anni sono state rese possibili dal potere intimidatorio esercitato dal figlio del boss locale, il primo del gruppo con cui la ragazza ha avuto rapporti. Si tratta di un importante fattore situazionale da tenere in considerazione. Il branco non ha quindi usato violenza in un'unica occasione, come spesso accade in altri casi caratterizzati da maggiore brutalità esecutiva, ma ha potuto continuare ad agire per un lungo periodo di tempo, approfittando dell'omertà di molti.
A ogni modo, criminologia e psicologia sociale insegnano che il passaggio da gruppo a branco può essere incredibilmente rapido e favorito da precisi meccanismi. Deindividuazione e approvazione sociale sono fattori estremamente potenti, capaci di avvicinarci al nostro lato più bestiale. Soprattutto, il passaggio può essere estremamente frequente: lo dimostrano i numerosi casi di c.d. baby gang e, in misura minore, anche gli innumerevoli episodi di bullismo che vedono più soggetti riuniti infierire sul singolo. Un dato è certo: il branco non ha età.


mercoledì 31 agosto 2016

Parliamo di FEMMINICIDIO

Risale a pochi giorni fa l'ennesimo episodio di violenza che si è concluso con la morte di una donna. In Brianza, Carmela Aparo, 64 anni, è stata uccisa a colpi di pistola al culmine di una lite con l'ex convivente, che è stato fermato dai carabinieri poche ore dopo l'omicidio.
Non nascondo che quello della violenza sulle donne è un tema a cui sono particolarmente sensibile. A Novara, città in cui vivo, collaboro come volontario col Centro Antiviolenza sulle donne gestito dal Centro Servizi Pari Opportunità della Provincia. Di fondamentale importanza, in rapporto a questo terribile fenomeno, è sostenere un costante lavoro di informazione e di sensibilizzazione.
Prendiamo spunto, quindi, dall'ultimo caso ricordato per esaminare sinteticamente quali dinamiche possono essere alla base di simili episodi.

Il primo dato che bisogna tenere a mente è che, secondo le statistiche, le donne subiscono violenza principalmente da parte di uomini che conoscono. Occorre, quindi, avere ben chiaro che il caso dello sconosciuto che usa violenza sulla donna rappresenta l'eccezione, sicuramente non la regola. Le mura domestiche, in particolare, rappresentano la dimensione in cui è più facile che certi episodi si verifichino e che, soprattutto, non vengano scoperti. Frequente è quindi la violenza esercitata dal convivente.

Secondo dato: non bisogna pensare che la violenza esploda all'improvviso, come un fulmine a ciel sereno. I criminologi sono ormai da tempo concordi nel ritenere che la violenza in ambiente domestico, all'interno della famiglia, abbia luogo (fino a raggiungere le estreme conseguenze) solo dopo aver trovato un "terreno fertile" costituito da ansia, frustrazione, tensioni di vario tipo. Molto improbabile che un uomo che abbia ucciso la compagna non sia mai stato violento in precedenza con la stessa. Diversi possono essere i motivi per cui la donna non reagisce ai maltrattamenti precedentemente subiti: poca fiducia nelle forze dell'ordine; convinzione che le violenze si ridurranno nel corso del tempo; impossibilità, data la mancanza di autonomi mezzi di sostentamento, di allontanarsi dal violento...
I delitti intrafamiliari non sono delitti emotivi, cioè improvvisamente provocati da emozioni negative del momento, bensì passionali, essendo dunque il risultato di una graduale maturazione.
L'uxoricidio, cioè l'uccisone del compagno/a, costituisce il caso più diffuso di omicidio in famiglia, e nel 90% dei casi la donna è la vittima.
Gli uomini che uccidono la propria compagna hanno molto spesso un passato difficile: per esempio, possono aver subito violenze e/o abusi durante l'infanzia da parte dei loro genitori. Sono soggetti profondamente insicuri e tendono a scaricare le loro frustrazioni sulle persone che hanno più vicine (compagne e, se presenti, figli), di cui non temono reazioni e giudizi.

Terzo dato che bisogna ricordare è che il momento criminogeneticamente più critico è quello della rottura del rapporto: avrete probabilmente ben presente che nella maggior parte dei casi di cui si sente parlare il compagno arriva a uccidere proprio nel momento in cui la donna trova il coraggio, dopo anni di violenze e soprusi, di troncare la relazione. Questa situazione risulta infatti intollerabile per uomini che, innanzitutto, vedono la propria compagna come una loro proprietà, una semplice estensione di loro stessi. La gelosia è sicuramente il primo motivo che porta all'omicidio. Gelosia talmente intensa che spesso arriva a configurare un vero e proprio disturbo (esiste, per esempio, la "sindrome di Mairet", che consiste in una gelosia ossessiva da cui l'uomo non cessa di essere tormentato).
Non è comunque raro che l'omicida sia affetto da altri disturbi mentali, come depressione o disturbo di personalità.

Prevenire i femminicidi è sicuramente possibile, ma questo richiede per prima cosa la capacità delle donne di avvertire il pericolo cui possono andare incontro, qualora gli episodi di violenza cui fossero soggette risultassero sempre più frequenti. In alcuni casi, purtroppo, questa capacità manca proprio perché la vittima di violenza, interessata talvolta da quella che gli studiosi hanno definito "sindrome della donna picchiata", non è in grado di distaccarsi dal compagno, da cui risulta assolutamente dipendente sul piano psicologico.

Letture consigliate:
De Pasquali P., L'orrore in casa. Psico-criminologia del parenticidio, FrancoAngeli, Milano, 2007


giovedì 25 agosto 2016

Che cos'è la CRIMINOLOGIA?

In estrema sintesi cerchiamo di considerare alcune prime ed essenziali nozioni. Prima di tutto, che cosa significa la parola "criminologia"? Criminologia vuol dire propriamente "discorso attorno al crimine". La parola è infatti costituita dal termine latino crimen (crimine) e da quello greco logos (discorso).
Quanto all'oggetto di studio di questa disciplina, ripropongo la definizione che ho sempre ritenuto tra le più complete, elaborata dal criminologo tedesco Kaiser, nella sua opera Kriminologie. Ein Lehrbuch, secondo cui la criminologia è "l'insieme organico delle conoscenze empiriche sul crimine, sul reo, sulla condotta socialmente deviante e sul controllo di questa condotta". La definizione deve però essere completata, considerando anche la vittima del crimine, cui la criminologia ha effettivamente rivolto sempre più attenzione nel corso dei decenni (tanto che la vittimologia costituisce oggi una branca particolarmente sviluppata della ricerca criminologica).
La criminologia, dunque, nasce in primo luogo dalla ricerca sul campo, senza la quale non sarebbe possibile delineare al meglio le specifiche dinamiche con cui il fenomeno criminale si manifesta nelle sue varie forme all'interno del tessuto sociale. Le teorie elaborate dai criminologi nascono da lunghe e complesse ricerche volte a raccogliere e a esaminare dati su dati, che possano garantire attendibilità a quanto poi formulato dagli studiosi.

ORIGINE E SVILUPPI
Il padre della moderna criminologia, contraddistinta cioè dall'applicazione del metodo scientifico allo studio del crimine, è da tutti considerato Cesare Lombroso, fondatore dell'antropologia criminale. Nato nel 1835, egli era medico e psichiatra, e a lui si riconduce il primo indirizzo della ricerca criminologica, cioè quello bioantropologico. Lombroso era convinto che il comportamento criminale fosse caratteristico di soggetti con particolari anomalie fisiche e che queste, ricordo di un precedente stadio evolutivo del genere umano, portassero inevitabilmente a determinate condotte delinquenziali. Le teorie di Lombroso ebbero per un certo tempo un notevole successo, per poi divenire bersaglio di aspre critiche. In particolare, la comunità scientifica iniziò presto a far notare come il c.d. "innatismo delinquenziale" sostenuto dallo studioso mancasse in realtà di solide basi a livello di metodologia della ricerca. Si riteneva, in poche parole, che Lombroso avesse costruito la propria teoria su dati tutt'altro che attendibili.
Quello di Lombroso fu comunque solo il primo di vari indirizzi che nel tempo hanno caratterizzato e/o caratterizzano tutt'ora la ricerca criminologica. Come anticipato, infatti, quando si parla di criminologia bisogna tenere bene a mente che la sua principale caratteristica consiste nella multidisciplinarietà. Si fonda quindi su un insieme di saperi provenienti da scienze diverse, ciascuna delle quali ha cercato di dare risposta alla stessa, fondamentale domanda: perché si delinque? Tra gli indirizzi su cui si fonda la criminologia possiamo, per esempio, ricordare quello sociologico (il primo a contrapporsi all'indirizzo bioantropologico), che presta attenzione particolare all'ambiente sociale in cui l'individuo che delinque si trova a vivere; quello psicologico, che invece si concentra sulla personalità del soggetto delinquente, cercando di individuare i fattori psichici che possono spingere all'attività criminale; quello biologico (che negli ultimi anni è tornato in auge), in base al quale il comportamento criminale avrebbe un'evidente componente biologica.
Non è possibile individuare un indirizzo prevalente sugli altri: tutti cercano di indagare il fenomeno criminale seguendo semplicemente percorsi diversi, ciascuno dei quali può senza dubbio apportare contributi importanti; contributi di cui ogni buon criminologo dovrebbe tener conto per avere una visione di insieme più completa possibile.

  

lunedì 22 agosto 2016

Per cominciare…

Un saluto a tutti i lettori che, mossi da curiosità, si troveranno a leggere questo blog, che rappresenta per me un'esperienza assolutamente nuova e stimolante.
Da più di dieci anni mi dedico allo studio appassionato delle scienze forensi, con particolare riguardo alle aree della criminologia e della criminalistica. La stessa passione mi ha spinto ora ad avviare questo blog, con cui vorrei, innanzitutto, cercare di trasmettere interesse per materie che trovo particolarmente affascinanti, e che ritengo indispensabili per comprendere al meglio il fenomeno criminale in tutte le sue complesse sfumature.
La criminologia è un scienza caratterizzata dalla multidisciplinarietà e proprio per questo motivo, soprattutto quando applicata al campo dell'investigazione, essa richiede a chi si dedichi al suo studio di approfondire le proprie conoscenze in ambiti diversi, dal diritto alla psicologia, dalla sociologia alla psichiatria, dalla biologia alla fisica... Affrontando i principali fatti di cronaca nera proposti dai media, ci si propone in questo blog di esaminare gli stessi con uno sguardo sempre rivolto alle teorie più importanti formulate dai criminologi nel corso dei decenni, e prestando attenzione a ogni contributo apportato dalle varie scienze sopra citate, che costituiscono le fondamenta della disciplina criminologica. Il fine a cui miro è quello di sfatare i molteplici luoghi comuni, legati generalmente a intenti di spettacolarizzazione, che sono spesso associati al fenomeno criminale e che non di rado possono alimentare un sentimento di insicurezza da cui sempre più persone sembrano oggi oppresse. Il titolo del blog dipende proprio da questo obiettivo: si vuole qui proporre una criminologia "buona", che, allergica a ogni forma di facile generalizzazione, sia innanzitutto utile a chi voglia esaminare con obiettività determinati fenomeni da cui la nostra società appare interessata.
Per chi si avvicinasse per la prima volta alla criminologia, non mancheranno, soprattutto nei primi post, alcune essenziali nozioni, che rappresentano l'abc di questa scienza.
Spero che il blog soddisfi le vostre aspettative e sia per voi prima di tutto una lettura piacevole e coinvolgente. Non resta che augurarvi buona criminologia!