martedì 20 settembre 2016

Quando il gruppo diviene BRANCO

Ha avuto un più che comprensibile eco mediatico la notizia della ragazza che a Melito Porto di Salvo (Reggio Calabria) è stata sottoposta dall'età di tredici anni fino ai quindici alle violenze e agli abusi sessuali compiuti da un gruppo di otto giovani ventenni suoi compaesani. Ancora una volta si è tornati a parlare di "branco": il richiamo è tutto a una dimensione bestiale, nella quale gli istinti più primordiali sembrano dettare legge e guidare le azioni dei singoli, che nel gruppo paiono quasi perdere la propria individualità. Naturale, quindi, domandarsi come questo sia possibile, come si possa essere capaci di certe azioni senza che subentri il minimo freno inibitorio o senso di colpa.
Ci si chiede se in casi come questo, con protagonista il branco, si ha più spesso a che fare con un gruppo di soggetti già dediti a un certo tipo di comportamento che si siano ritrovati poi in un gruppo,  favoriti da un meccanismo di "rinforzo reciproco", oppure se sia proprio il gruppo costituito che scatena nel singolo istinti e condotte antisociali prima tenute relativamente sotto controllo?
Prendendo quindi spunto da questo episodio, può rivelarsi utile considerare che le dinamiche che si sviluppano all'interno di un gruppo dedito a particolari comportamenti antisociali (comprese violenze di vario genere) possono essere in linea di massima molto simili nei vari casi, indipendentemente dalla realtà a cui il gruppo stesso appartenga e in cui agisca.
Sarebbe dunque importante domandarsi quali fattori possano spiegare dinamiche di questo tipo: che cosa può spingere il gruppo ad azioni che le persone da cui è composto, prese singolarmente, difficilmente  arriverebbero  a compiere? Superato lo sdegno comprensibilmente generato dall'accaduto, dobbiamo cercare di capire, innanzitutto, che cosa può fare del gruppo un branco.

Per tentare di trovare una risposta, diciamo subito che la criminologia può avvalersi dell'importante contributo offerto dalla psicologia sociale, che studia i processi di socializzazione e di interazione sociale, ossia il modo in cui il singolo tende a rapportarsi con gli altri. Se accettiamo l'idea che l'individuo può formarsi solo grazie al confronto con altri soggetti e che dunque vi è preminenza della percezione dell'altro sullo sviluppo dell'autocoscienza (come dire, cioè, che l'individuo non è in grado di agire su se stesso senza l'interazione con un altro che reagisce alle sue azioni), allora ben possiamo capire come sia fondamentale una scienza che faccia proprio dell'interazione il suo principale oggetto di studio. In particolare, la psicologia sociale ha da tempo dimostrato fino a che punto l'individuo possa essere condizionato e plasmato dal gruppo, soprattutto se costituito da suoi pari. Il singolo, in un tale contesto, può arrivare con disarmante facilità a tradire i propri principi e valori (quindi sé stesso).
Per capire meglio ciò di cui stiamo parlando, vorrei qui richiamare alla vostra attenzione il celebre studio condotto dallo psicologo Philip Zimbardo.
Nel 1971 Zimbardo condusse quello che è tutt'oggi conosciuto come "l'esperimento della prigionia simulata", i cui risultati colpirono profondamente la comunità scientifica. Organizzato nel Dipartimento di psicologia dell'Università di Stanford, nel quale si cercò di riprodurre al meglio l'ambiente carcerario, lo studio si proponeva di esaminare le dinamiche che si sarebbero sviluppate in  tale particolare contesto. Zimbardo e i suoi collaboratori selezionarono 24 soggetti maschi (ragazzi assolutamente normali, sani e psicologicamente stabili) e li suddivisero in due gruppi: a 12 venne assegnato il ruolo di secondini, agli altri quello di guardie. I ruoli furono assegnati a sorteggio, senza quindi dare ai volontari una possibilità di scelta. A entrambi i gruppi furono consegnati indumenti adeguati alla parte che avrebbero dovuto recitare: le guardie avrebbero indossato un'uniforme e portato accessori quali manganello, occhiali a specchio e fischietto; ai detenuti, invece, vennero consegnati un camice di cotone e sandali di gomma.
Ai giovani con il ruolo di guardie vennero date poche, semplici indicazioni: il loro compito sarebbe stato quello di garantire l'ordine all'interno della prigione simulata. Avrebbero avuto "carta bianca", senza l'obbligo di attenersi a precisi modelli di comportamento. Unico limite: non avrebbero mai dovuto ricorrere a punizioni fisiche.
L'esperimento sarebbe dovuto durare due settimane, ma Zimbardo fu costretto a interrompere il tutto dopo appena 5 giorni: contravvenendo all'unica regola data, i secondini erano arrivati a porre in essere aggressioni fisiche e psichiche sempre più estreme, infierendo senza alcuna pietà sul gruppo di giovani col ruolo di prigionieri. Si ricordi che i giovani a cui era stato assegnato a sorteggio il ruolo di secondino erano ragazzi assolutamente equilibrati: in nessuno di loro, prima dell'esperimento, era stata identificata una particolare inclinazione a condotte antisociali.
Che cosa ha quindi favorito la trasformazione di questi giovani in soggetti sadici e senza pietà? Zimbardo non ebbe dubbi a riguardo: sicuramente il contesto particolare aveva giocato una parte importante, così come il fenomeno dell'immedesimazione in ruoli che implicano l'esercizio di un potere autoritario, ma la verità a cui si giunse è che il gruppo in sé favorisce un certo tipo di comportamenti. E questo sulla base di due elementi:
- Il gruppo, innanzitutto, porta al fenomeno della "deindividuazione", cioè alla perdita di autoconsapevolezza, e genera una sensazione di quasi anonimato, condizioni che rendono più facile assecondare impulsi antisociali che il singolo terrebbe sotto controllo. Il gruppo, si può affermare, spesso "slatentizza" l'aggressività dell'individuo.
- In secondo luogo, il "potere dell'approvazione sociale" è davvero notevole: il bisogno di piacere a tutti i costi agli altri è così forte da spingerci spesso a conformarci a comportamenti insensati. Ciò spiega perché il membro del gruppo che percepisca il disvalore della condotta collettiva non riesca così facilmente a opporsi agli altri componenti.

Quanto detto ci aiuta a capire che effettivamente il gruppo, al ricorrere di particolari fattori situazioniali, esercita sul singolo un potere tutt'altro che trascurabile, che ben può favorire la comparsa o quanto meno l'accentuarsi di un certo tipo di condotte.

Il caso specifico di Melito presenta ovviamente dei tratti peculiari, primo tra tutti quello che le molteplici violenze succedutesi nel coso degli anni sono state rese possibili dal potere intimidatorio esercitato dal figlio del boss locale, il primo del gruppo con cui la ragazza ha avuto rapporti. Si tratta di un importante fattore situazionale da tenere in considerazione. Il branco non ha quindi usato violenza in un'unica occasione, come spesso accade in altri casi caratterizzati da maggiore brutalità esecutiva, ma ha potuto continuare ad agire per un lungo periodo di tempo, approfittando dell'omertà di molti.
A ogni modo, criminologia e psicologia sociale insegnano che il passaggio da gruppo a branco può essere incredibilmente rapido e favorito da precisi meccanismi. Deindividuazione e approvazione sociale sono fattori estremamente potenti, capaci di avvicinarci al nostro lato più bestiale. Soprattutto, il passaggio può essere estremamente frequente: lo dimostrano i numerosi casi di c.d. baby gang e, in misura minore, anche gli innumerevoli episodi di bullismo che vedono più soggetti riuniti infierire sul singolo. Un dato è certo: il branco non ha età.


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