mercoledì 8 febbraio 2017

Possibile predire il comportamento criminale?

Uno dei quesiti a cui la ricerca criminologica ha cercato nel tempo di dare risposta è se sia possibile, ed entro quali limiti, riuscire a predire in un soggetto un suo futuro comportamento criminale. Quesito tutt'altro che semplice, se pensiamo all'elevato numero di variabili che possono portare un individuo a intraprendere questo tipo di strada e, soprattutto, a continuare a percorrerla.
Nel nostro sistema, il tentativo di predire la commissione di reati è un'operazione condotta in un momento successivo alla condanna definitiva di una persona, ed è strettamente connessa al concetto di "pericolosità sociale" dello specifico soggetto da esaminare (concetto a cui dedicherò un prossimo post): in sintesi, diciamo che è socialmente pericoloso, secondo il nostro diritto penale, chi abbia commesso un reato o un "quasi reato" (emblematico il caso del "reato impossibile") e sia probabile che in futuro commetta nuovi crimini. Dunque, l'autorità giudiziaria richiede al criminologo di esaminare un soggetto recluso  che si sia già contraddistinto per un comportamento deviante (e che, quindi, essendo già stato sottoposto a processo penale, sia stato riconosciuto colpevole), cercando di valutare le probabilità che questo, nell'avvenire e trovandosi nuovamente in libertà, commetta ancora reati, dello stesso tipo o di altro genere rispetto a quelli già commessi e che hanno portato alla sua reclusione.
Attraverso il c.d. "colloquio criminologico", il criminologo cerca di considerare una serie di fattori per elaborare un proprio parere circa la pericolosità del recluso. A seconda della specifica formazione dell'esperto, i fattori considerati saranno diversi e pure rilevati con differenti strumenti: per esempio, se il criminologo è anche psicologo, questi si concentrerà prevalentemente su aspetti relativi alla personalità della persona esaminata e potranno essere impiegati specifici strumenti statistici (test mentali). Nel caso di criminologi che non siano anche psicologi, il ricorso a test mentali è assolutamente proibito e il colloquio non si concentrerà principalmente su aspetti della personalità, ma potrà essere incentrato, per esempio, anche su fattori sociali relativi all'ambiente di vita della persona studiata (es. composizione della famiglia, legami affettivi, obiettivi per il futuro...).
Generalmente, solo la collaborazione tra criminologi di differente formazione può assicurare previsioni di una certa validità, perché avanzate in considerazione di un maggior numero di variabili in gioco. Dobbiamo ricordare, infatti, che si tratta prima di tutto di giudizi soggettivi e, come tali, purtroppo, potranno sempre essere viziati da errori di valutazione. Solo il confronto può limitare entro certi limiti le probabilità di errore. Il punto, quindi, è proprio questo: è davvero possibile predire il comportamento criminale? Quanto sono attendibili le previsioni degli esperti? Per averne un'idea, può essere utile richiamare alcuni dati riportati anche da Bandini e coll. nell'opera Criminologia, in base ai quali le previsioni elaborate da un esperto che faccia affidamento unicamente sulla propria esperienza e riconosca importanza, per esempio, solo a caratteristiche della personalità del soggetto esaminato, senza neppure ricorrere anche all'utilizzo dei test, risultano tendenzialmente tutt'altro che infallibili. Questo perché, come ben si può capire, anche l'esperto più preparato non può essere completamente immune da errori di valutazione, come a esempio quello di sovrastimare la pericolosità attuale del recluso e finire, conseguentemente, col ritenere più che probabili futuri suoi crimini. Dunque, prevedere con assolta certezza se un soggetto si asterrà o meno dal commettere nuovi reati non è assolutamente possibile. Tuttavia, dato che questo compito risponde a un'esigenza delle istituzioni e che continua, per questo, a essere assegnato, si deve cercare di assolverlo al meglio, conducendo un esame completo e dettagliato che porti a un parere relativamente attendibile. Non bisogna mai scordare che da un tale giudizio dipende il futuro non solo della persona esaminata, ma pure di quelle con cui questa entrerà poi in contatto.
Quindi, ricapitolando, l'autorità giudiziaria chiede a esperti di psicologia e criminologia di cimentarsi nell'arduo compito di valutare, e dunque prevedere, se vi sia e quale sia la probabilità che una persona reclusa per scontare una pena commetta in futuro nuovi reati. Dal parere reso dagli esperti, in relazione al livello di pericolosità sociale rilevato nell'esaminato, dipenderà tra le altre cose la possibilità di concedere la fruizione di misure alternative alla detenzione (es. affidamento in prova ai servizi sociali) o la concessione di particolari permessi. Solo un alto grado di professionalità e la disponibilità a collaborare con colleghi di diversa formazione possono rendere una previsione sul futuro comportamento di un soggetto sicuramente non infallibile, ma quanto meno valida.  

venerdì 13 gennaio 2017

Quali sono i POSTULATI FONDAMENTALI DELLA CRIMINALISTICA?

L'investigazione sulla scena del crimine, che rappresenta la c.d. "fase CSI", richiede che gli operatori coinvolti si distinguano, innanzitutto, per un rigore assoluto e una ben precisa metodologia di lavoro. La ricerca delle tracce, infatti, deve avvenire nel pieno rispetto di precise procedure operative, volte a limitare ogni possibilità di errore e di "contaminazione" della scena. In particolare, è opportuno che, qualora ci si dedichi all'esame di un ambiente in cui si sia verificato (o si crede che si sia verificato) un evento delittuoso, si tengano sempre a mente alcuni basilari principi, veri e propri "postulati fondamentali della criminalistica". Questi postulati, ampiamente esaminati nel testo Manuale delle investigazioni sulla scena del crimine (a cura di Curtotti D., Saravo L.), che figura tra quelli che mi sento vivamente di consigliare non solo a ogni appassionato di criminalistica, ma pure a chi, di fatto, si trovi già a lavorare nell'ambito delle investigazioni, mirano a guidare il procedimento logico di chi si appresti a ricercare e a raccogliere elementi utili alla ricostruzione di un delitto. Questi postulati sono espressi da 5 principi, ossia:
- Principio di interscambio: quando due corpi entrano in contatto, avviene inevitabilmente uno scambio di informazioni sotto forma di tracce. L'autore di un delitto, cioè, lascia sempre qualcosa di sé sulla scena del crimine, così come questa, a sua volta, rilascia un proprio marchio sul reo. Pensate, per esempio, al caso in cui la scena del crimine si trovi in un bosco: in una tale situazione, l'autore del delitto avrà lasciato sicuramente tracce (che potranno essere biologiche o meno), ma sarà stato pure "segnato" dall'ambiente stesso, che avrà, per così dire, "ceduto" una parte di sé, sotto forma, giusto per fare un esempio tra tanti, di un particolare tipo di terriccio rinvenuto poi sulle suole delle scarpe del reo.
- Principio di divisibilità della materia: ogni materia, se sottoposta a una forza esterna, genera inevitabilmente tracce di essa.
- Principio di causalità: le tracce presenti sulla scena del crimine sono legate da una precisa relazione di causa-effetto, poiché ogni cosa è traccia di qualcos'altro.
- Principio di continuità laterale: in natura, in ogni ambiente, vi è sempre una continuità di informazioni che non risulta turbata da una netta interruzione. Vi è discontinuità solo laddove si sia verificata un'alterazione di qualche tipo. Se consideriamo, quindi, la scena di un crimine, le tracce prodotte in seguito all'evento (pensiamo, per esempio, a schizzi di sangue) tenderanno a distribuirsi necessariamente secondo una certa continuità, diffondendosi in modo omogeneo nello spazio. Ove tale omogeneità non sussistesse, ricorrerebbe in modo più o meno evidente un segno di alterazione del sistema.
- Principio di sovrapposizione: quando ci si trovi a esaminare una scena del crimine, il primo modo di stabilire la successione temporanea degli eventi è dato dall'analisi della disposizione stratigrafica degli oggetti sulla scena. Si guarda, cioè, al modo in cui tali elementi appaiono disposti uno sull'altro.
Tenere a mente questi postulati consente all'operatore CSI di fornire, innanzitutto, una spiegazione logica alle tracce rilevate. E potete ben capire come anche la scienza più evoluta, che sulla scena di un crimine può esprimersi con l'utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate, senza un ragionamento logico su cui fondarsi non può garantire risultati soddisfacenti.

mercoledì 11 gennaio 2017

Nuovo caso di GENITORICIDIO

Svolta nel caso del duplice omicidio avvenuto nel Ferrarese. A uccidere i coniugi Salvatore Vincelli e Nunzia Di Gianni sarebbe stato il loro figlio sedicenne. Fermato anche un amico del giovane (anche questi minorenne), che avrebbe aiutato l'omicida a spostare i cadaveri servendosi di  sacchi di plastica. Questi elementi sono emersi dagli interrogatori a cui sono stati e sono tutt'ora sottoposti i due ragazzi, che hanno indicato agli inquirenti il luogo dove ritrovare l'arma del delitto (un'ascia) e gli indumenti sporcatisi di sangue. Ancora da stabilire se il figlio della coppia sia l'unico autore del massacro. L'amico, infatti, potrebbe aver avuto un ruolo attivo anche nel corso degli omicidi e non solo successivamente a questi. Saranno le indagini ancora in svolgimento a ricostruire con chiarezza il tragico episodio.
Il genitoricidio, ossia l'omicidio di entrambi i genitori per mano del figlio, non è sicuramente un fenomeno nuovo per quanto concerne la realtà italiana. Tanto che i media non hanno avuto alcuna difficoltà a ricordare casi analoghi, primo tra tutti quello di Pietro Maso, che massacrò madre e padre per impossessarsi dell'eredità.
Per quanto concerne il profilo medio dei figli che uccidono i propri genitori, si tratta generalmente di soggetti maschi sui trent'anni di età, con vita sociale e attività lavorativa assenti o deludenti; sono generalmente costretti a vivere coi genitori perché ancora non indipendenti o perché patologicamente  legati all'ambiente domestico in cui sono cresciuti, dal quale faticano a distaccarsi.
Alla base di un'azione così terribile possono esservi varie cause. Il più delle volte l'omicida è affetto da grave malattia mentale, come, per esempio, gravi forme di depressione o disturbi psicotici. In altri casi, i figli uccidono per un movente economico (come nel caso sopra ricordato), presentando eventualmente disturbi di personalità che consentono di agire senza il minimo rimorso. Altre volte ancora, l'omicidio dei genitori avviene in risposta a violenze e abusi protrattisi negli anni a danno dell'omicida stesso. In generale, possiamo affermare che tragedie di questo tipo sono determinate, innanzitutto, da dinamiche famigliari estremamente problematiche, contraddistinte da assoluta mancanza di comunicazione tra i membri del nucleo familiare. Si crea in tal modo un terreno fertile per incomprensioni e tensioni sempre più profonde, pronte a esplodere al ricorrere di particolari fattori situazionali (come l'ennesimo litigio tra genitori e figlio).
Il genitoricidio del Ferrarese pare ricollegarsi proprio a una situazione di questo tipo, se consideriamo che lo stesso omicida ha affermato di aver agito per via dei contrasti sempre più accesi con le vittime, colpevoli, a suo dire, di essere stati genitori troppo severi e ossessivi. Particolare e indicativa, a mio avviso, anche la scelta dell'arma utizzata: anziché infliggere i colpi con una lama di più ridotte dimensioni e quindi più maneggevole, il giovane ha utilizzato un'ascia, strumento che, considerata la violenza dell'azione, ha probabilmente consentito di scaricare tutta la rabbia provata nei confronti delle vittime raggiunte dai colpi. Ovviamente, queste sono solo prime considerazioni e impressioni. Nessuno al di fuori degli inquirenti e degli esperti che saranno poi chiamati a esaminare direttamente i fatti e i soggetti coinvolti potrà avere un visione d'insieme assolutamente completa. Probabilmente, perizie e consulenze tecniche cercheranno prossimamente di accertare se nei giovani possano essere diagnosticati disturbi psichici di qualche tipo.

lunedì 9 gennaio 2017

Che cosa si intende per CRIMINALISTICA?

Dopo tanti post dedicati esclusivamente alla criminologia, prestiamo ora attenzione anche all'altro ambito a cui questo blog vuole riservare il giusto spazio, e cioè quello della criminalistica. Partiamo, come al solito, dalle nozioni base, dall'ABC della scienza in esame.
Quando parliamo di CRIMINALISTICA facciamo riferimento, innanzitutto, all'insieme di tutte quelle particolari procedure scientifiche che sono attuate sulla scena di un possibile evento delittuoso per ricercare e successivamente analizzare gli elementi a esso collegati. Pensate, quindi, a tutte le operazioni che, con l'impiego di idonei strumenti e prodotti, possono essere eseguite da qualificate figure professionali  per individuare e raccogliere determinati reperti, biologici e non, al fine di accertare che sulla scena in esame sia stato effettivamente commesso un reato e, conseguentemente, di individuare il suo autore. Leggendo questa prima definizione, molti di voi penseranno sicuramente a serie televisive modello CSI e alle articolate indagini dei loro protagonisti. Ecco, quelli che in tali casi gli attori si trovano a impersonare non sono criminologi, ma criminalisti.
La criminalistica è sostanzialmente la "scienza delle tracce fisiche" lasciate in occasione dell'evento delittuoso. Tengo a specificare che si tratta di tracce "fisiche" perché sulla scena di un crimine esistono anche, e direi in eguale misura, "tracce psichiche", cioè segni che permettono di dedurre particolari caratteristiche della personalità dell'autore del delitto: in questo caso sarà il criminologo, e non il criminalista, a studiare il modus operandi adottato dal c.d. "soggetto ignoto", cercando così di delineare un profilo criminale a cui fare riferimento nel corso delle indagini (parliamo, quindi, di "criminal profiling", a cui ho già avuto modo di dedicare un precedente post).
Esistono diversi tipi di tracce: possiamo avere tracce rilevanti (cioè vere fonti di prova), contaminate (cioè prodotte accidentalmente da chi si trova a operare sulla scena del crimine successivamente a questo), dirette (ossia univocamente collegabili al reo), simulate, occupazionali (lasciate cioè dai frequentatori del dato ambiente prima che venisse commesso il crimine), circostanziali (ossia che descrivono particolare dinamica dell'evento delittuoso) ...
Alcune tracce sono immediatamente individuabili, mentre altre, le c.d. tracce latenti, possono essere individuate solo grazie a particolari strumenti (come apposite fonti di illuminazione) e prodotti chimici.
Postulato fondamentale conosciuto da ogni buon criminologo e criminalista è il noto "principio di interscambio" (o "principio di Locard"): tra scena del crimine e autore del delitto avviene inevitabilmente uno scambio di informazioni sotto forma di tracce. Non esiste il crimine perfetto, ma l'indagine imperfetta, che non risulta, cioè, in grado di rilevare questi particolari elementi, che, seppure di dimensioni incredibilmente ridotte, non possono che essere sempre presenti.
Il principio cardine della criminalistica è che la ricerca delle tracce deve avvenire in modo assolutamente sistematico e sulla base di un ben preciso criterio logico.      

sabato 7 gennaio 2017

Il mass murderer di Fort Lauderdale

Nella giornata di ieri, nell'aeroporto americano di Fort Lauderdale (Florida), ha avuto luogo l'ennesimo episodio di mass murder (omicidio di massa), fenomeno da cui gli Stati Uniti continuano a essere tragicamente interessati. 5 morti e 8 feriti: è questo il bilancio della sparatoria che Esteban Santiago, ventiseienne ex militare, ha compiuto in meno di un minuto, scaricando più di trenta colpi sui passeggeri che, prima di lasciare l'aeroporto, erano in attesa di ritirare i loro bagagli. Dopo aver terminato le munizioni, il giovane si è arreso senza opporre alcuna resistenza. Gli investigatori americani non ritengono che possa essersi trattato di un attacco terroristico. Infatti, pur essendo le indagini soltanto agli inizi, i primi elementi raccolti sembrano confermare che l'uomo rientri a pieno titolo nella categoria dei mass murderers, ossia degli "assassini di massa". Prendendo spunto da quest'ultima tragedia e richiamando gli elementi raccolti dagli inquirenti americani che stanno lavorando sul caso, cerchiamo di capire, quindi, quali siano le caratteristiche più ricorrenti di una tale tipologia di assassino.
Secondo la definizione che possiamo ritrovare in letteratura, un mass murderer è un soggetto che nello stesso tempo e nello stesso luogo (dunque in un unico evento) uccide almeno 3-4 persone, che egli generalmente non conosce o con le quali, a ogni modo, non sussistono stretti legami. La ricerca criminologica ha permesso di delineare un preciso profilo criminale a cui questo genere di assassini sembra frequentemente rispondere: si tratta di soggetti relativamente giovani (tra i venticinque e i quarant'anni), che arrivano a compiere i loro massacri spinti principalmente da frustrazione e risentimento, alimentati, nel corso degli anni, nei confronti del sistema sociale d'appartenenza. Per un omicida di massa, la strage rappresenta un'occasione per vendicarsi di soprusi (reali o solo presunti) di cui lo stesso ritiene di essere stato vittima, lo strumento con cui riuscire a scaricare un'intensa tensione emotiva accumulata nel corso del tempo e non più contenibile. Generalmente, i mass murderers sono affetti da più o meno seri disturbi mentali, che possono consistere, per esempio, in disturbi di personalità (come quello narcisistico) o in disturbi psicotici caratterizzati dalla presenza di deliri di diverso genere. Molto spesso, questi soggetti hanno subito abusi e violenze durante l'infanzia. Successivamente agli omicidi, l'autore degli stessi può arrivare a togliersi la vita o può essere abbattuto dalle forze di polizia; la resa senza ulteriori spargimenti di sangue non rappresenta certamente il caso più frequente.
Tornando al caso specifico del killer di Fort Lauderdale, da quanto è stato fino a ora ricostruito, il giovane avrebbe aperto il fuoco sui presenti senza proferire parola, come se fosse stato in preda a una sorta di "follia omicida" innescata da chissà quale situazione. Alcuni testimoni hanno parlato di un litigio con alcuni passeggeri, episodio che potrebbe aver rappresentato, di fatto, l'ultima goccia che ha fatto traboccare un vaso già da tempo al limite della sua capacità, anche per via, probabilmente, dei seri problemi mentali da cui il giovane sarebbe stato affetto (secondo indiscrezioni, questi si sarebbe persino recato nel 2016 negli uffici dell'FBI, ad Anchorage, per denunciare di "essere costretto a combattere per l'Isis", e questo potrebbe effettivamente far pensare alla sussistenza di un vero e proprio delirio). Le indagini, come detto, sono in pieno svolgimento, ma al momento questi primi elementi farebbero propendere con una certa sicurezza verso la tesi del mass murderer, dato che le caratteristiche di Esteban Santiago sembrano chiaramente richiamare quelle sopra considerate in rapporto al profilo medio di questa topologia di assassini.


venerdì 23 dicembre 2016

"Violenza assistita" e "orfani speciali"

Una delle conseguenze più nefaste legate ai casi di violenza domestica ai danni delle donne e a quelli più estremi di femminicidio è rappresentata dall'insieme di effetti a breve e a lungo termine sofferti dai figli della coppia maltrattante-maltrattata. Abbiamo già visto in precedenti post quali fattori possano spingere un uomo a maltrattare la propria compagna, così come abbiamo potuto considerare per quali motivi una donna vittima di violenza non riesca ad allontanarsi dal suo aguzzino. Ciò che non avevamo ancora approfondito sono, appunto, i danni psicologici riportati da quei minori che per anni, impotenti, assistono alle violenze a cui la madre è sottoposta. Sono quei minori che, una volta che il padre sia arrivato a uccidere la compagna e che, fortunatamente, non abbia deciso di eliminare anche gli stessi figli, sono chiamati "orfani speciali". A questo tema si è oggi dedicata la trasmissione Forum, in onda su Canale Cinque, che mi sono trovato casualmente a seguire e che mi ha spinto a spendere opportunamente due parole sull'argomento.

Abbiamo già detto che, in un numero considerevole di casi, le madri vittime di violenza non si allontanano dal compagno violento perché, non essendo economicamente indipendenti, temono, innanzitutto, di non poter assicurare ai propri figli quelle possibilità che, ritengono, sarebbero garantite solo grazie alle risorse del partner. La donna maltrattata, dunque, in un estremo gesto d'amore, si sacrifica per quello che la stessa crede possa essere il bene del resto della famiglia. Purtroppo, queste donne non riescono a comprendere che la c.d. "violenza assistita" ha su quegli stessi figli che vorrebbero proteggere conseguenze molto serie. In primo luogo, infatti, non è difficile immaginare quale possa essere la tensione a cui dei bambini siano soggetti nel vedere la propria madre frequentemente insultata, picchiata e, talvolta, persino violentata. Sono vari i disturbi psichici che possono insorgere in conseguenza di questa drammatica situazione, considerato che l'ambiente domestico, che dovrebbe essere luogo di sicurezza e affetto, diviene, invece, teatro di scene di violenza di diverso genere e grado. L'effetto più deleterio, tuttavia, è quello che si manifesta nel lungo termine: può accadere, infatti, che nel minore che abbia assistito alle violenze in esame maturi nel tempo una concezione distorta del rapporto che dovrebbe esistere tra i componenti di una coppia; in questa immagine distorta la violenza viene gradualmente concepita come parte integrante di una relazione. Più tenera è l'età del bambino, maggiore è la probabilità che in futuro questi possa adottare una condotta simile a quella tenuta a suo tempo dal padre maltrattante. Soprattutto nel caso in cui il minore, una volta adulto, instauri una relazione con una donna che a sua volta abbia subito abusi in età infantile e che tenda a legarsi a un certo tipo di individui maltrattanti, è molto probabile che tra i due si riproponga uno schema comportamentale coincidente con quello a cui il violento, da bambino, ha avuto la sfortuna di assistere per molto tempo e che, di fatto, egli è arrivato a considerare come normale e legittimo.

In seguito alla tragedia, i minori che siano sopravvissuti alla stessa si ritrovano a essere orfani, interessati da un trauma enorme e molto difficile da gestire qualora non si intervenga in modo tempestivo, avviando un adeguato percorso terapeutico che possa prevenire effetti come quelli sopra richiamati. Purtroppo, nella realtà questo non sempre avviene e molti bambini, senza l'assistenza di personale qualificato, crescono lacerati da una tremenda ferita che molto difficilmente riesce a guarire.
    

venerdì 25 novembre 2016

Stalkers

Sono stati resi noti i più recenti dati Istat relativi agli atti persecutori che nel nostro Paese sono posti in essere nei confronti delle donne. Sarebbero 3,5 milioni le donne ad aver subito episodi di stalking nel corso della loro vita e il 78% di loro non ha mai chiesto aiuto. Cerchiamo allora di considerare in sintesi gli aspetti principali di questo fenomeno.

I persecutori sono individui che possono essere considerati veri e propri "cacciatori". Vi basti pensare, infatti, che il termine stalking è traducibile in italiano con l'espressione "caccia in appostamento"; deriva, infatti, dal verbo inglese to stalk, che significa propriamente "inseguire la preda in modo furtivo".
Uno stalker è un persecutore assillante che, con particolari comportamenti ripetuti nel tempo, crea nella sua vittima un profondo stato di disagio, fisico e psicologico. La persona perseguitata si sente di fatto come una preda braccata. Il persecutore, in genere, non aggredisce in modo diretto ricorrendo alla violenza fisica, ma esercita il suo potere sulla vittima attraverso tutta una serie di comportamenti da cui la stessa può sentirsi minacciata o comunque molestata. Non sempre lo stalker è pienamente consapevole di generare nel soggetto perseguitato uno stato di grave disagio, potendo in certi casi essere affetto da disturbi mentali che determinano l'incapacità di riconoscere la gravità della propria condotta.

Parlando di stalking, sono solito fare riferimento alla classificazione proposta da Paul Mullen, professore di psichiatria forense, che identifica in particolare cinque categorie di persecutori: "cercatori di intimità"; "respinti"; "corteggiatori incompetenti"; "rancorosi"; "predatori".
Il "cercatore di intimità" è un soggetto che cerca in ogni modo di instaurare un rapporto con una persona da cui si sente attratto, nell'incrollabile convinzione che questa sia innamorata di lui. La vittima generalmente non conosce il persecutore, nel quale può essersi imbattuta nell'ambito delle personali attività quotidiane. È un tipo di stalker particolarmente insistente. Solitario e non abile nel corteggiamento,  può spesso essere affetto da disturbo di personalità o da disturbo psicotico con marcata presenza di delirio erotomanico.
Il "respinto" è un persecutore che, avendo avuto in passato una relazione sentimentale con la vittima, è spinto dal desiderio incontrollabile di riallacciare il rapporto con la stessa. Solitamente, è un individuo violento da cui la donna perseguitata ha voluto ed è riuscita ad allontanarsi. Presenta molto spesso anomalie caratteriali e problemi di abuso di alcool e/o di stupefacenti.
Il "corteggiatore incompetente" è un soggetto con marcata incapacità di instaurare un rapporto sentimentale con le altre persone. A differenza del cercatore di intimità, questo tipo di stalker ha avuto un effettivo approccio con la vittima, ma si rivela assolutamente incapace di corteggiarla in modo adeguato. Quesa incapacità può derivare da immaturità, mancanza di un certo tipo di educazione, ma anche da ritardo mentale o da altri gravi disturbi psichici. Non è un persecutore particolarmente insistente e tende a cambiare vittima quando abbia ricevuto da questa un netto rifiuto.
Il "rancoroso" è uno stalker che vede sè stesso come vittima di particolari torti o soprusi, che possono essere reali o solo presunti. La persecuzione si concentra su soggetti da cui il rancoroso si sia sentito in passato umiliato o tormentato. La vittima braccata può anche non essere la persona da cui il persecutore ritiene di aver subito il torto, ma avere solo la sfortuna di rappresentarla simbolicamente. Questo tipo di stalker presenta generalmente gravi disturbi mentali (es. disturbo psicotico con delirio di persecuzione).
Il "predatore", infine, è il tipo di persecutore più pericoloso. Sono stalkers violenti che cacciano la loro preda spinti da un perverso appetito sessuale. Non sono socialmente bene integrati e presentano seri problemi di autostima. Affetti quasi sempre da parafilie, pensano ossessivamente alla vittima come oggetto sessuale su cui scaricare i loro impulsi. L'aggressione fisica e sessuale non rappresenta un'eventualità, ma un'azione che questi soggetti pianificano con cura.

I criminologi ritengono che alla base del comportamento persecutorio vi sia una vera e propria "patologia dell'attaccamento", determinata da una storia infantile di abusi, maltrattamenti e importanti perdite affettive.

Per quanto concerne i comportamenti più frequentemente adottati dai persecutori, possiamo dire
che uno stalker può fare ricorso a un arsenale davvero molto ampio, fatto di incessanti contatti telefonici, pedinamenti e appostamenti, adulazioni e regali continui, molestie di vario genere, visite intrusive nel domicilio e sul posto di lavoro, minacce e vandalismi...Senza considerare appostamenti e pedinamenti, che rappresentano il repertorio base degli stalkers, si può affermare che ogni tipo di persecutore prediliga in particolare alcuni dei comportamenti appena considerati: per esempio, respinti e rancorosi ricorrono frequentemente a molestie, minacce e vandalismi; cercatori di intimità e corteggiatori inadeguati, invece, si distinguono in particolare per l'invio assillante di regali e incessanti contatti telefonici. Considerate, comunque, che non esistono rigidi schemi comportamentali.
Vere e proprie aggressioni fisiche rappresentano generalmente il culmine dell'attività persecutoria e sono attuate quando lo stalker raggiunge l'apice della rabbia e della frustrazione nutrite nei confronti della vittima.

Merita di essere ricordato il c.d. "cyberstalking", tecnica di persecuzione particolarmente invasiva che sfrutta il mezzo informatico per molestare e minacciare la vittima designata.

Come emerso dalle ultime ricerche, la maggior parte delle donne che siano vittime di atti persecutori non si rivolgono a esperti e a forze dell'ordine per ottenere aiuto. Questo comportamento può rivelarsi un errore molto grave, per non dire fatale. Se è vero, infatti, che gli stalkers non ricorrono direttamente alla violenza nel corso della persecuzione, ugualmente vero è che col passare del tempo, a seguito dei rifiuti e dei tentativi di allontanamento da parte della vittima, questa possibilità può farsi sempre più concreta, in risposta a un accumulo di frustrazione che per il persecutore diviene insostenibile.


lunedì 24 ottobre 2016

Omicidi-suicidi tra le mura domestiche

In pochi giorni si sono susseguiti nuovi casi di femminicidio, accomunati dalla particolare dinamica dell'omicidio-suicidio: il primo è avvenuto il 21 ottobre nella periferia di Torino, mentre il secondo ha avuto luogo il giorno successivo in provincia di Pisa, nel Volterrano.
In entrambi i casi, l'uomo ha ucciso la moglie e si è poi tolto la vita. Differenze sembrano comunque emergere in rapporto alle cause alla base dei delitti: a Torino la tragedia pare essere avvenuta innanzitutto per motivi economici, considerato che l'omicida, oppresso dai debiti, avrebbe lasciato un biglietto per spiegare in quali difficili condizioni si trovasse. Nel caso di Montecerboli, nel Volterrano, sembra invece che i coniugi fossero in fase di separazione e che i litigi, hanno riferito i vicini, fossero sempre più duri e frequenti.

I due episodi considerati ci permettono di esaminare una dinamica sicuramente non rara quando ci si trovi di fronte a delitti intrafamiliari: il suicidio del pater familias (colui che più spesso, statisticamente parlando, è autore del delitto che si consuma tra le mura domestiche) segue a breve distanza di tempo l'omicidio della compagna. Ci si domanda, dunque, quali meccanismi possano dare origine a tragedie di questo tipo, le quali, qualora comprendano anche la morte dei figli della coppia, sono classicamente definite dalla letteratura come "family mass murders".

Ho già sinteticamente esaminato in un precedente post le diverse dinamiche che possono determinare un femminicidio. Cerchiamo ora di capire come possa spiegarsi il suicidio del suo autore successivamente al delitto.
Possiamo dire che il suicidio post delictum rappresenta il gesto a cui frequentemente ricorre il soggetto che sia affetto da disturbo mentale, che generalmente può
consistere in una forte depressione o in una psicosi. Nel caso specifico di depressione, l'omicidio può essere commesso anche da uomini che non sono mai stati violenti con la propria compagna. Nel caso di Torino è possibile, per esempio, che vi sia stata una situazione di questo genere, essendo piuttosto probabile, almeno sulla base dei primi elementi raccolti dagli investigatori e se risultasse l'assenza di precedenti episodi di violenza, che sia stato proprio uno stato depressisvo determinato dalle difficoltà economiche dell'uomo a portare all'ideazione del delitto e del successivo suicidio.
Il fine che l'omicida si propone di raggiungere in questi casi è generalmente quello di liberare non solo sè stesso ma anche i propri familiari dalle sofferenze inflitte da un mondo avvertito come sempre più ostile. Dopo aver ucciso la compagna e, se presenti, anche gli altri famigliari, il suicidio consente di ricongiungersi alle vittime.
Considerando, invece, i casi di uomini che prima di uccidere si sono contraddistinti per comportamenti violenti,  in molti soggetti che divengono sempre più aggressivi nei confronti della loro compagna coesistono paradossalmente il bisogno di eleminare la stessa, verso cui si sviluppa molto spesso una vera e propria ossessione, e la consapevolezza dell'incapacità di vivere senza di questa. In seguito all'omicidio, l'omicida sente di avere eliminato una parte di sè senza la quale è convinto di non poter restare. Il caso di Montecerboli potrebbe ricondursi a una dinamica di questo  tipo. Il fatto che non siano stati coinvolti i figli, presenti al momento del fatto, può suggerire che la tragedia non sia avvenuta in dipendenza di uno stato depressivo, dal momento che questo, in un numero considerevole di casi, spinge l'omicida a uccidere tutti i componenti della famiglia.
Secondo i criminologi, l'omicidio-suicidio è di solito un gesto premeditato. L'omicida dedica quindi un certo lasso di tempo all'ideazione del delitto e il suicidio rappresenta una conclusione programmata già prima dell'uccisione della compagna. Torna quindi il concetto di "delitto passionale", frutto di graduale maturazione.

Possiamo dire, in conclusione, che l'omicidio-suicidio può avere principalmente due spiegazioni: in certi casi può essere espressione del desiderio di morte dell'omicida, che, sopraffatto dall'intento suicida, decide egoisticamente di "portare con sé" anche la compagna, convinto di poterle risparmiare future sofferenze; in altri casi, l'uomo uccide la donna per determinati motivi (primo tra tutti la gelosia) e si suicida per ricongiungersi alla persona amata e ormai perduta, senza la quale non vede alcun futuro.

Rappresenta un caso particolare il c.d. "omicidio per pietà", che ricorre quando la compagna, affetta per esempio da grave malattia, è uccisa per evitare ulteriori sofferenze legate alla difficile situazione; in questo caso il successivo suicidio dell'uomo ha carattere, per così dire, "altruistico": egli si sente in dovere di uccidere la compagna sofferente e nello stesso tempo decide di accompagnarla anche nella morte.